Considerazioni, riflessioni e domande

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    Marco Betti
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        Marco Betti
        Amministratore del forum
          Vi segnalo questo articolo di Gianfranco Marocchi del 9 settembre 2021:

           

          Il momento di guardare avanti

          Premessa

          Le politiche nei confronti del Terzo settore hanno avuto in questo trentennio cicli diversi: in alcuni momenti ispirate da un clima culturale che vede nel Terzo settore una risorsa preziosa e imprescindibile per tenuta e per lo sviluppo della nostra società e partner naturale delle amministrazioni pubbliche per realizzare interventi di finalità di interesse generale, in altri tese a considerarlo come luogo di potenziali abusi da contenere e reprimere o comunque come soggetto privato con cui interloquire nella misura in cui è fornitore di prestazioni vantaggiose.

          Nei cicli positivi si assiste alla promulgazione di legislazione promozionale specifica per il Terzo settore, ma anche alla proliferazione di riferimenti al valore del terzo settore in documenti diversi quali norme relative ad altri settori, documenti di programmazione, ecc. Nei cicli negativi al contrario si sviluppa un’enfasi sul controllo e si tende a limitare le normative ispirate alle peculiarità del Terzo settore omologandolo ai soggetti di mercato e semmai sottoponendolo a vincoli ulteriori; questo non impedisce necessariamente al Terzo settore di svilupparsi economicamente, ma influisce sulla sua possibilità di essere motore di cambiamento sociale.

          Questo contributo si propone di leggere i cicli politici nei confronti del Terzo settore, frutto delle spinte sopra descritte, incrociandoli con i cicli politici del welfare: anch’esso ha conosciuto fasi espansive – ad esempio l’onda lunga che dagli anni ottanta novanta, caratterizzati da un graduale aumento delle risorse e dell’evoluzione del sistema dei servizi, ha portato all’approvazione della legge 328/2000 – e cicli di riflusso, come quello che dal 2008 al 2011 ha portato all’azzeramento dei fondi nazionali e nuovi momenti di ripresa come quello attuale.

          Leggere insieme il ciclo politico del welfare e quello del terzo settore, non necessariamente tra loro coincidenti – anzi, la coincidenza di fasi positive è di per sé non più probabile che combinazioni diverse –  è un’operazione utile alla comprensione dei fatti, se si pensa che probabilmente il welfare come oggi lo conosciamo è nato proprio grazie ad uno dei casi di coincidenza tra la fase politica positiva del welfare e del Terzo settore: quella che ha favorito, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Novanta, l’affermazione di nuovi diritti e di paradigmi di intervento non più segreganti ma inclusivi.

          Ma, dopo questo momento fondativo, come si sono combinati i cicli politici del welfare e del Terzo settore?

          Fase 1 – Ciclo positivo per il welfare, negativo per il terzo settore

          Vi sono stati momenti in cui il ciclo positivo delle politiche del welfare si è accompagnato ad un limitato riconoscimento delle specificità del ruolo del Terzo settore. Questo è quanto avvenuto nel decennio che va dalla seconda parte degli anni Novanta al 2008, in cui si assiste ad un’espansione del welfare sociale, all’approvazione della 328/2000, alla nascita dei primi fondi nazionali in tema di politiche sociali; ma anche ad una prima assolutizzazione dell’ideologia della competizione a livello nazionale ed europeo che – tralasciando il potenziale delle leggi del 1991, la 266 e la 381 – portò ad una considerazione quasi esclusiva del Terzo settore come fornitore della pubblica amministrazione. L’esito di queste dinamiche è stato di due tipi: da un punto di vista economico, l’aumento di risorse per il welfare e l’espansione degli interventi in questo campo ha trainato una significativa crescita delle dimensioni del Terzo settore; da un punto di vista del ruolo politico, il Terzo settore tendeva ad essere considerato, almeno formalmente, un mero soggetto di mercato, in qualche modo interscambiabile sulla base della convenienza economica. La “politica” è quella della pubblica amministrazione, che individua poi sul mercato l’ente di Terzo settore che meglio può fornire il servizio richiesto. La capacità di innovazione e di cambiamento del Terzo setto settore è stata spesso assorbita dalle derive burocratiche e tecnocratiche del sistema dei servizi di welfare.

          Fase 2 – Ciclo negativo per il welfare, positivo per il Terzo settore

          Vi sono stati momenti in cui l’attenzione politica al terzo settore si è accompagnata, al contrario, con un ciclo negativo delle politiche di welfare. I peggiori anni nella storia recente del nostro welfare sono senza dubbio quelli corrispondenti ai governi Berlusconi IV (2008 – 2011) e Monti (2011 – 2012): azzeramento dei fondi nazionali che finanziano le politiche sociali e, nel primo dei due, clima culturale orientato a considerare il welfare come spreco da limitare in quanto luogo di possibili abusi da parte di cittadini che opportunisticamente simulano dei bisogni per trarne indebiti vantaggi (sono gli anni della virulenta polemica sui “falsi invalidi”, ad esempio). Sono anni in cui il Governo, nella sua “Analisi della spesa sociale” del 2009, parla del welfare locale come di “un’ampia area residuale che fa riferimento al tema della povertà oppure ad alcune categorie ben identificate e circoscritte (immigrati, tossicodipendenti, vittime di usura ed altri)” che consiste in “prestazioni, … erogate in sede locale, che si traducono raramente nel riconoscimento di entitlement veri e propri, e rimangono legate a dimensioni di finanziamento che hanno natura molto erratica” (per completezza, il finanziamento locale era in quegli stessi anni forzatamente diminuito dal Governo stesso che tagliava in modo consistente i fondi per comuni e regioni). Mentre il welfare, per dirla con le parole di Cristiano Gori, si faceva sempre più prestazionale ed emergenziale, in quello stesso clima culturale vi era una significativa attenzione al Terzo settore: il libro bianco dell’allora ministro Sacconi (anno 2009) lo definiva come “punto di forza del welfare italiano” dalle “enormi e in parte non ancora esplorate potenzialità” e si riferiva al “ruolo strategico del mondo cooperativo, sintesi tra sviluppo imprenditoriale, economico e sociale”. Si trattava dell’adattamento al nostro Paese delle dottrine della big society che il premier inglese Cameron pose poi alla base del suo manifesto elettorale del 2010. In quegli anni in Italia si stabilizzavano e prendevano forza provvedimenti (il 5×1000, il dispositivo fiscale +dai-versi) che, seppure sperimentati qualche anno prima, venivano rafforzati coerentemente con l’idea di un welfare caritatevole (nel citato Libro bianco del 2009, la radice “carità” appariva citata più volte con la massima enfasi positiva); in Europa montava la (ambigua) enfasi sulla “innovazione sociale” che portava con sé un’inedita attenzione per i soggetti di Terzo settore (si iniziò a parlarne nel 2009 in un’Europa alla ricerca di risposte alla crisi economica, per arrivare tre anni dopo, nel 2011, all’approvazione della Social Business Initiative da parte della Commissione europea). In questi contesti, ciclo “basso” per il welfare, ciclo “alto” del Terzo settore, quest’ultimo viene gratificato da formali attribuzioni di ruolo, dall’essere indicato come ancora di salvezza in circostanze difficili, insomma dal vedersi riconosciuto il ruolo che nella fase precedente veniva negato. È forte in queste circostanze, per il Terzo settore, la tentazione di far prevalere questi aspetti di riconoscimento, permeandosi esso stesso dell’ideologia che lega l’espansione del Terzo settore al ridimensionamento delle risposte istituzionali. La realtà è invece un’altra: la gratificazione politica rimane formale, il welfare in ritirata genera competizione ancora più accesa all’interno del Terzo settore che, ben lontano dal diventare il fulcro del benessere del Paese, si ritrova impegnato in lotte fratricide al ribasso che hanno come premio, per il vincitore, una stentata sopravvivenza, mentre le persone per cui il Terzo settore si spende vedono erosi ogni giorno i propri diritti.

          Fase 3 – Di nuovo alta per il welfare, bassa per il Terzo settore

          A questa fase è seguita una nuova fase simile alla prima. Vi è una progressiva ripresa nel ciclo del welfare, sia da un punto di vista economico, sia dal punto di vista politico culturale: accanto alla nuova dotazione dei fondi nazionali, parte a metà degli anni Dieci il processo che porterà nel 2017 ai maggiori nuovi stanziamenti per le politiche sociali di questi decenni, con l’introduzione delle misure di contrasto alla povertà, ambito sino a quel momento trascurato dal nostro sistema di protezione sociale. Vi è al tempo stesso la massima enfasi dell’ideologia che vede acriticamente nella competizione di mercato l’unico elemento di garanzia per il benessere dei cittadini; sono gli anni dello strapotere ANAC che, anche sull’onda del clima culturale creatosi a seguito degli scandali di mafia capitale, realizza una stretta senza precedenti per ricondurre anche il welfare entro i criteri di mercato e il Terzo settore nell’alveo dei competitor fornitori delle pubbliche amministrazioni. Ma è al tempo stesso il contesto in cui, con il processo ancora oggi in via di compimento della Riforma del Terzo settore, inizia un ciclo diverso.

          Fase 4 – Ora

          Arriviamo ai giorni nostri. Non vi è spazio per ricostruire la lunga e dura contesa tra una concezione del Terzo settore come soggetto di mercato fornitore di servizi e quella di soggetto di interesse generale che contribuisce al benessere della comunità (si rimanda in merito a questo articolo). Quello che è importante affermare è che oggi ci si trova in un contesto non frequente – non più visto dopo l’inizio degli anni Novanta – di ciclo politico positivo sia per il Terzo settore, sia per il welfare, come aveva giustamente intuito in un articolo su Welforum Ugo De Ambrogio. Rispetto al Welfare, come ben indicato dal Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali 2021 – 2023, vi sono, a vent’anni dalla 328/2000, le condizioni per una seria programmazione, che metta mano in modo significativo ad uno dei grandi nodi irrisolti del nostro sistema di protezione sociale, l’assenza di Livelli Essenziali delle Prestazioni, pur costituzionalmente previsti. Anche il rafforzamento del sistema dei servizi ha visto una svolta importante, trainata dalle politiche di contrasto alla povertà (il Piano documenta, tra le altre cose, un consistente aumento delle risorse impegnate nel servizio sociale professionale) e i fondi per il welfare hanno invertito in modo deciso il ciclo negativo della fase 2008 – 2012, con un raddoppio documentato dal Piano rispetto a tale periodo, oltre che con le consistenti risorse aggiuntive destinate al contrasto alla povertà. Sul fronte del Terzo settore, vi sono importanti segni di superamento della concezione strumentale connessa all’ideologia della competizione di mercato: oltre alla definitiva legittimazione sul fronte giuridico degli istituti della coprogrammazione e della coprogettazione grazie alla sentenza 131/2020 della Corte costituzionale (qui il commento su Welforum), alle modifiche del Codice dei contratti pubblici (vedi questo articolo su Welforum) e alle Linee guida sui rapporti tra enti pubblici e Terzo settore (vedi questo articolo e questo su Welforum), la percezione del Terzo settore come soggetto che, al pari e a fianco delle pubbliche amministrazioni costruisce l’interesse generale travasa in una pluralità di contesti normativi diversi: dalla legislazione dell’emergenza Covid (il peraltro sfortunato art. 48 del Cura Italia) al PNRR, dalle tante pratiche di enti locali ad appunto il citato Piano nazionale, è ormai consolidato nella nostra cultura giuridica e nella prassi amministrativa il fare riferimento alla coprogrammazione e alla coprogettazione e quindi pensare al Terzo settore come partner delle pubbliche amministrazioni chiamato a co-costruire l’interesse generale.

          Guardando avanti

          Dunque, dopo molto tempo i “cicli politici alti” del welfare e del Terzo settore coincidono, con esiti positivi che le migliori pratiche locali già stanno documentando. Risorse per il welfare forse contenute rispetto ad altri paesi europei, ma non più annualmente ridimensionate e nuove sinergie tra gli attori del territorio possono portare a una fase potenzialmente molto feconda. Tutto ciò se gli attori in campo sono consapevoli di questa opportunità e la sfruttano per dare vita in modo sinergico ad una fase di innovazione che può essere altrettanto produttiva rispetto alla precedente fase di coincidenza dei cicli positivi di welfare e Terzo settore, dalla fine degli anni Settanta ai primi anni Novanta, in cui è stato costruito il welfare così come lo conosciamo.

          Tutto ciò se si saprà mettere a frutto questa circostanza positiva con la giusta dose di creatività e immaginazione, che significa anche: tenendo a bada le involuzioni tecnicistiche e burocratiche che deprimono la capacità di uscire dagli schemi, dato che la costruzione del “nuovo” non si fa solo dotando il “vecchio” di un budget un po’ superiore. Una nuova fase virtuosa richiede infine la capacità di affrontare in modo non distruttivo le immancabili sfide e difficoltà che si incontrano durante il percorso: si è scritto su Welforum di come l’amministrazione condivisa non sia priva di fatiche (vedi questo articolo e questo) e sul fronte del Welfare non è un caso che il dibattito politico di questi giorni veda iniziative volte a minare (non a migliorare e correggere, ma a rimuovere!) le misure di contrasto alla povertà considerate inefficaci e costose. Di fronte alla difficoltà, la tentazione di una semplificazione che guarda al passato è sempre presente e vi possono essere, anche nel terzo settore, soggetti in qualche modo sedotti dalla possibilità di recuperare spazi economici e di potere connessi a scenari precedenti. Speriamo di avere invece la capacità di guardare avanti.

          • Questa risposta è stata modificata 4 anni fa da Marco Betti.
          Marco Betti
          Amministratore del forum
            Un altro intervento di Marocchi, uscito il 29 luglio su welforum.

            Coprogettazione: dal cofinanziamento alla corresponsabilità

            È interessante ragionare su come si sono evoluti gli interessi di chi si occupa di amministrazione condivisa. Solo due anni fa, il tema su cui si concentravano gli incontri pubblici e le domande degli operatori era quello della legittimità: la legge consente di coprogrammare e di coprogettare? Questo filone di riflessione non è scomparso, ma, soprattutto nella seconda parte del 2020, dopo che la Sentenza 131/2020 della Corte costituzionale ha dissolto ogni dubbio in merito, è stato affiancato da un altro: se oggi è ormai chiaro che collaborare si può, si tratta di capire come quando farlo, e come farlo al meglio. E dunque le buone prassi da seguire, gli errori da evitare, con un approccio misto di tipo giuridico (ad esempio, come redigere un avviso pubblico per instradare al meglio il procedimento) e relativo alle dinamiche dei tavoli (come porsi in un tavolo di lavoro e come governarlo).

            Oggi questo secondo filone si sta evolvendo in un terzo, che prende le mosse dalle prime esperienze pratiche di coprogrammazione e di coprogettazione. La domanda all’esperto nasce ex post, è una richiesta di confronto di chi ha provato in prima persona a praticare l’amministrazione condivisa e oggi vuole riflettere a partire da “come è andata”. E quindi i soggetti di questa conoscenza sono insieme degli “esperti” che studiano questi temi e i protagonisti che hanno vissuto in prima persona le esperienze; i primi senza i secondi rischiano di produrre una conoscenza vuota e poco appetibile.

            Le narrazioni, proprio perché influenzate dalle esperienze soggettive, si fanno oggi molto differenti e non deve stupire di avere a che fare con entusiasti, secondo i quali grazie a queste esperienze si sono modificati radicalmente e in modo positivo i modelli di intervento di un territorio, così come con coloro che evidenziano problematicità.

            Queste ultime possono essere ricondotte a due situazioni. La prima riguarda i casi in cui i protagonisti affermano che in fondo non c’è stato nulla di diverso da un appalto, evidenziando quindi situazioni riconducibili ad una immaturità del soggetto pubblico e/o del Terzo settore nell’assumere i nuovi ruoli derivanti da uno schema collaborativo; ma si tratta probabilmente di un caso meno interessante, un residuo destinato ad essere superato anche grazie alla diffusione delle Linee guida approvate con DM 72 del 301/3/2021. La seconda merita più attenzione e riguarda i casi di amministrazione condivisa autentica, cui i partecipanti riconoscono il valore, riscontrando al tempo stesso però elementi di problematicità che rendono difficile l’effettiva applicazione. In un precedente articolo si era affrontato il tema delle fatiche della collaborazione legate all’onerosità del lavoro nei tavoli; ora si intende affrontare un’ulteriore questione che sempre più spesso viene posta, soprattutto dal Terzo settore, legata alla (non) sostenibilità economica della coprogettazione per effetto della richiesta del cosiddetto “cofinanziamento” da parte delle amministrazioni.

            La convinzione che si vuole qui esprimere è che “cofinanziamento” sia un concetto poco utile – anzi dannoso – da abbandonare e da sostituire con quello più inclusivo, credibile e produttivo di “corresponsabilità”.

            In premessa va evidenziato come il fondamento di un procedimento ex art. 55 non sia (come in altri procedimenti collaborativi, ed esempio nei “patti di sussidiarietà” della Regione Liguria) la quantità di risorse proprie messe inizialmente a disposizione da parte del Terzo settore (il “cofinanziamento”), ma la natura “di interesse generale” degli ETS; che di conseguenza (e qui entra in gioco la corresponsabilità), orienteranno le proprie risorse non al proprio profitto ma al perseguimento dell’interesse comune. Le risorse anche non pubbliche non sono presupposto ma esito del processo, in altre parole.

            Il concetto di corresponsabilità rappresenta un cambiamento radicale rispetto alle relazioni che si instaurano tra EEPP e TS quando essi si considerano come controinteressati in una relazione di mercato, dove cioè il terzo settore vende prestazioni e il soggetto pubblico le acquista entro un sistema di competizione; in tale situazione il soggetto pubblico è solo nel definire gli interventi da attivare ed è solo nella responsabilità di trovare le risorse necessarie; in un contesto di amministrazione condivisa gli interventi da attivare sono invece frutto del concorso di tutti i soggetti, pubblici e di terzo settore, con finalità di interesse generale e sono tutti questi soggetti a ricercare le risorse necessarie per realizzarli.

            Questo è un processo virtuoso, forse incerto nei risultati (ricercare risorse non vuol dire necessariamente trovarle), ma che in esperienze documentate ha dato luogo ad una moltiplicazione impensabile degli interventi attivati a favore dei cittadini; ma richiede che, accanto alle risorse necessarie per garantire gli interventi che rispondono a diritti soggettivi che comunque le istituzioni pubbliche devono assicurare, tutti i partner si mettano in gioco avendo come obiettivo il costruire insieme le condizioni per realizzare il progetto condiviso.

            Ciascuno lo farà secondo la propria vocazione, nell’ambito di un insieme di azioni concordate. L’organizzazione di volontariato solleciterà l’impegno gratuito dei propri membri e soprattutto attiverà campagne di coinvolgimento della cittadinanza a partire dalle finalità del progetto condiviso. Chi ha a disposizione locali, strumenti, competenze (anche trasversali alle azioni del progetto, ad esempio nell’ambito della comunicazione o delle tecnologie) li condividerà con il gruppo di lavoro. La fondazione del territorio potrà destinare risorse. E così via.

            Resta la questione delle imprese sociali, cui nella logica del cofinanziamento viene chiesto “cosa mi offri gratuitamente?”. Perché dovrebbero farlo? Con quali risorse, o meglio, sottraendo quali risorse ad una comunità vicina? Di fronte a questa richiesta impropria, l’impresa sociale è portata da una parte a “simulare” il cofinanziamento enumerando a tal fine voci formali, che di fatto portano un valore aggiunto assai limitato al progetto, dall’altra a guardare con sospetto l’amministrazione condivisa come soluzione in cui bisogna “pagare (o fingere di pagare) per poter lavorare”, formula che evoca paralleli ben poco lusinghieri.

            La realtà è che all’impresa sociale va chiesto di corresponsabilizzarsi facendo, appunto, l’impresa e quindi trovando risorse per il progetto grazie alle proprie capacità di investimento; e quindi, concretamente, o attraverso un’attività di impresa (un bar, una mostra, l’organizzazione di eventi, ecc. in un parco pubblico o in un edificio recuperato) che contribuisce di per sé e in modo autosostenibile al risultato atteso del progetto e che, nei casi migliori, oltre a generare risorse per la propria sostenibilità, finanzia altri interventi, o mettendo la propria struttura a servizio di azioni di ricerca risorse ad esempio su bandi comunitari o di fondazioni, sempre intendendo questa attività come orientata a scopi definiti concordemente nell’ambito del progetto e non come autonomo sviluppo di impresa.

            Quando si legge che in casi di coprogettazione le risorse disponibili si sono moltiplicate, non è certo perché si sia richiesto ai partner di terzo settore di “cofinanziare”, ma perché il partenariato si è impegnato (corresponsabilizzato) nell’attivazione di volontari (il cui apporto in alcuni casi è stato contabilizzato attribuendovi un valore economico) e nella ricerca di risorse economiche frutto di progettazioni comuni. Due voci “ex post”, frutto del lavoro dei partner, più che risorse destinate già ex-ante al progetto. Le risorse ex-ante sono o fittizie (come nel caso dell’impresa sociale che computa quote di ore lavoro del proprio staff) o a somma zero (il volontario dell’associazione che opera nel progetto anziché altrove). Il vero successo è quando invece l’azione porta a risorse aggiuntive, prima non esistenti: il cittadino che inizia a fare il volontario perché conquistato dal progetto, la risorsa comunitaria intercettata e integrata nel progetto, ecc.

            Certo che questo implica il rischio che invece le cose vadano male, che le risorse aggiuntive, pur avendo operato al meglio, non siano reperite e inoltre mal si concilia con impostazioni, spesso presenti e rassicuranti da un punto di vista amministrativo, ove si richiede ai partner non pubblici una certa percentuale di risorse proprie per dimostrare il vantaggio del procedimento collaborativo (per un approfondimento sulla legittimità e la sensatezza del non richiedere il “cofinanziamento” in termini tradizionali si rimanda anche a questo articolo). L’ottica corretta è diversa, non certo un mero richiamo generico all’impegno, ma la richiesta a chi si candida come partner di indicare le azioni di ricerca risorse in cui può impegnarsi, sviluppando poi questi intenti nel tavolo di lavoro comune e dando così evidenza del valore aggiunto della coprogettazione.

            In conclusione: in questi mesi le esperienze di amministrazione condivisa non sono più solo auspicate e progettate, ma anche praticate e stanno documentando importanti successi ma anche problematicità che vanno affrontate a viso aperto. Quello della sostenibilità per il Terzo settore è sicuramente un tema importante, che va affrontato non in ottica formale di “amministrazione difensiva” (le carte da predisporre per evitare possibili accuse), ma al fine di ottenere un vantaggio pubblico sostanziale, superando l’idea delle risorse come un gioco “a somma zero” e adottando schemi win-win, dove quindi l’impegno collettivo e sinergico porta un vantaggio ai cittadini, risultando sostenibile per i partner; e su questo le esperienze in atto già oggi hanno molto da insegnare.

             

             

             

            • Questa risposta è stata modificata 4 anni fa da Marco Betti.
            Massimiliano Marcucci
            Partecipante
              Grazie Marco, molto utili.

              mm

              Marco Betti
              Amministratore del forum

                2022: sarà l’anno della coprogrammazione?

                Gianfranco Marocchi

                Come una veloce ricerca internet può confermare, il notevole interesse per gli strumenti dell’amministrazione condivisa stimolato dall’art. 55 del Codice del Terzo settore e diffusosi nell’ultimo biennio si è tradotto in gran parte in esperienze di coprogettazione e solo in misura assai minore in tentativi di coprogrammazione. Perché ciò è avvenuto, dal momento che, a rigor di logica, sarebbe ragionevole presumere che amministrazioni pubbliche e terzo settore interessanti ad esperienze collaborative partissero a coprogrammare, per solo successivamente, poi, coprogettare? E dal momento che la prassi di collaborazione storicamente più diffusa in ambito welfare in tempi relativamente recenti erano stati i Piani di Zona, di fatto una pratica per molti versi sovrapponibile alla coprogrammazione prevista dalla Riforma del Terzo settore? E perché, al tempo stesso, è ragionevole ritenere che nel 2022 l’attuale sproporzione tra i due principali strumenti di amministrazione condivisa sia destinata almeno parzialmente a riequilibrarsi?

                Secondo l’articolo 55 del d.lgs. 117/2017 (Codice del Terzo settore), la coprogrammazione consiste nell’individuazione dei bisogni da soddisfare, degli interventi a tal fine necessari, delle modalità di realizzazione degli stessi e delle risorse disponibili. Si tratta quindi di definire quali tipi di interventi attivare sulla base dei bisogni rilevati. La coprogettazione riguarda invece la definizione di specifici progetti di servizio o di intervento finalizzati a soddisfare bisogni ben definiti, anche grazie alla coprogrammazione. Entrambi questi strumenti coinvolgono tutte le amministrazioni pubbliche in tutti i “settori di interesse generale”: non solo quindi quelli tipicamente legati al welfare (sociale, sociosanitario), ma un insieme di 26 ambiti (cfr. art. 5 del d.lgs 117/2017) che vanno dal welfare alla salute, dalla formazione e educazione ai servizi per l’impiego, dalla cooperazione allo sviluppo alla promozione della cultura della legalità e così via. In tutti questi ambiti, afferma l’art. 117/2017, tutti gli enti pubblici assicurano il coinvolgimento degli enti di Terzo settore attraverso la coprogrammazione e la coprogettazione.

                Le cause

                Seguendo la linea evolutiva dei Piani di Zona nei due decenni passati, la prima osservazione è che ad essere mortificata, almeno sino a tempi molto recenti, più che la coprogrammazione, sia stata la programmazione in quanto tale. I motivi sono riconducibili alle disponibilità economiche per il welfare calanti sino ad azzerarsi degli anni 2008 – 2012 sia sul fronte nazionale che locale e comunque; e, anche per le non cospicue risorse esistenti, la poca programmabilità anche in orizzonti medio brevi (due o tre anni); lo schiacciamento dei servizi sulle urgenze e marcato approccio prestazionale. Tutti motivi che hanno portato ad un declino della programmazione dopo la fase di entusiasmo collettivo di metà anni Novanta.

                Il terzo settore, da parte sua, è stato coinvolto nell’ubriacatura competitiva prestazionale, enfatizzando quindi il proprio ruolo gestionale e di conseguenza mostrandosi tiepido rispetto all’impegnarsi in modo significativo e competente nella programmazione. Non senza alcune rimarchevoli eccezioni, tutto ciò ha portato ad una diffusa caduta di interesse della programmazione che si è tradotta in alcuni territori nella caduta in desuetudine dei Piani di Zona e in molti altri, comunque, nella marginalizzazione di tali strumenti.

                La rinascita della collaborazione

                Quando, in anni recenti, si è assistito all’inedita diffusione della collaborazione sulla scia delle previsioni dell’art. 55 del Codice del Terzo settore, ciò non si è tradotto, in prima istanza, nella rinascita di strumenti di coprogrammazione, ma in esperienze di coprogettazione: l’immediatezza di “cose da fare insieme”, della praticità che consente di avere immediatamente contezza degli esiti positivi della collaborazione, è evidentemente risultata più attrattiva, viste anche le incertezze sul fronte della coprogrammazione sopra richiamate. Vi è da dire, per completezza, che in molti casi tali coprogettazioni incorporano anche elementi programmatori: hanno, nei casi virtuosi, una configurazione molto aperta, destinata a includere anche parti non secondarie della lettura dei bisogni tipica della coprogrammazione o prevedono luoghi (es. “cabine di regia”) dove di fatto i diversi filoni progettuali sono ricondotti ad un quadro unitario non lontano ad una logica di programmazione.

                E ora, cosa sta accadendo?

                Negli ultimi mesi, come indicato in premessa, accanto alla ulteriore diffusione delle esperienze di coprogettazione, si assiste ad una progressiva crescita della coprogrammazione, sia dal punto di vista delle effettive pratiche, sia dell’interesse culturale per il tema, come mostrano le richieste di attivare iniziative formative sul tema o gli articoli pubblicati su riviste di settore.

                Le esperienze positive di collaborazione hanno senz’altro stimolato il desiderio dei protagonisti di sperimentarsi anche su terreni non immediatamente operativi, anche a partire dalla constatazione dell’incompletezza di un percorso che preveda di confrontarsi sull’operatività senza avere prima condiviso, in sede di coprogrammazione, l’importanza di dedicarsi ad un determinato progetto.

                È vero che, da un punto di vista teorico, ci si sarebbe atteso il percorso contrario – prima si coprogramma, poi eventualmente si coprogetta – ma, a ben vedere, una volta che la dinamica si è attivata e si è diffusa la consapevolezza dell’importanza di entrambi questi strumenti, il punto di partenza iniziale diventa non così rilevante. Si aggiunga che, mentre la coprogettazione deve fare i conti con la possibile scelta alternativa basata sulla competizione (affidare i servizi tramite appalto), una volta che si acquisisca a livello culturale il valore positivo della collaborazione non vi sono motivi validi per non coprogrammare, fatto salvo il fatto di indirizzare le energie partecipative (non infinite, vedi questo articolo) sugli aspetti di maggiore rilievo. Dunque, sembra legittimo attendersi nei prossimi mesi un significativo sviluppo di esperienze di coprogrammazione.

                Nodi

                Come si può intuire da quanto sino a ora detto, si tratta di eventi molto recenti e quindi è normale che le pratiche facciano sorgere via via nuove domande e potenziali criticità sulle quali intervenire.

                Un primo nodo riguarda la capacità di intendere la coprogrammazione come procedimento teso a pervenire a scelte ben definite e non come mero confronto interlocutorio sui caratteri auspicabili degli interventi sociali. Talvolta si leggono documenti finali di coprogrammazione che mettono in luce elementi certamente importanti relativi alle caratteristiche degli interventi, ad esempio il fatto che gli interventi debbano essere più individualizzati, meno settoriali, più centrati sulla persona, ispirati a logiche di prossimità, ecc.: tutte affermazioni peraltro condivisibili e che trovano cittadinanza entro una coprogrammazione, che come ricordato, ha tra le proprie finalità la definizione appunto delle “modalità di realizzazione” degli interventi quali quelle qui richiamate. Ma ciò dovrebbe avvenire insieme a indicazioni precise sui bisogni prioritari, sugli interventi di conseguenza da attivare e sulle risorse da mobilitare. Insomma, una coprogrammazione è chiamata a assumere delle scelte, ad affermare che un certo bisogno è più urgente di altri, che di conseguenza determinati interventi vanno potenziati ed altri abbandonati. Che le risorse note vanno destinate in una certa proporzione a determinati bisogni e conseguenti interventi e in un’altra proporzione ad altri; e che altri interventi ancora sono, per quanto forse utili, non prioritari e quindi, ad esempio, verranno attivati solo se saranno individuate risorse aggiuntive. Certamente tutto ciò è molto impegnativo, ma la programmazione comporta senz’altro ascolto, confronto, condivisione, ma anche scelte, non sempre semplici.

                Un secondo nodo, connesso al primo, riguarda le risorse. Al di là degli aspetti giuridici, ha senso, per una pubblica amministrazione, avviare una coprogrammazione senza dire nulla relativamente alle risorse che si impegna a destinare? Si potrebbe in linea di principio rispondere positivamente: prima si delineino al meglio i bisogni, solo dopo si ragionerà sulle risorse. Ma la realtà è che una coprogrammazione che non dica nulla su quanto le istituzioni sono determinate ad investire su un certo tema rischia di essere fragile, mentre la presenza di risorse documenta chiaramente e trasmette al terzo settore la serietà degli intenti dell’amministrazione.

                Un terzo nodo è relativo alla qualità della coprogrammazione. Il tema presenta declinazioni diverse ed è di particolare rilievo se si considera lo scenario di partenza, quello di una programmazione spesso divenuta desueta sia per il terzo settore sia, talvolta, per l’ente pubblico. Una coprogrammazione di qualità non può prescindere da una cultura del dato – che va raccolto, ragionato, condiviso – e più in generale da un significativo sforzo di ricerca e approfondimento; in altre parole, detto senza mezzi termini, una coprogrammazione che si fondi sulla condivisione dei luoghi comuni che affollano la mente dei partecipanti, difficilmente può arrivare lontano. Ma accanto al quadro conoscitivo, vi è chi (Fazzi 2021) richiama con forza la necessità di inserire nel processo di programmazione punti di vista inediti e non riconducibili solo a quelli istituzionali dei servizi: si tratta cioè di integrare in primo luogo visioni e priorità dei destinatari dei servizi entro un quadro organizzativo non troppo ingessato da standard e prescrizioni, tale cioè da essere permeabile al cambiamento. Entrambi questi elementi ci inducono a pensare che, né dal punto di vista dell’ente pubblico, né del terzo settore, la coprogrammazione possa essere improvvisata o estemporanea: richiede al contrario scelte organizzative non scontate, energie, assunzione di prospettive culturali inedite.

                In conclusione

                Nella progressiva diffusione degli strumenti di amministrazione condivisa, vi sono ragioni per credere che i prossimi mesi la coprogrammazione raccoglierà un sempre maggiore interesse. Da una parte lo scenario di inconsistenza per le risorse destinate al welfare sembra essere mutato e i principali fondi nazionali hanno assunto carattere strutturale nel bilancio dello Stato; forse non a caso nelle scorse settimane è stato dopo molti anni nuovamente diffuso un Piano nazionale delle politiche sociali nel quale, tra l’altro, si tenta, seppure in modo ancora iniziale, di riproporre il tema dei livelli essenziali delle prestazioni. Dall’altra, le prime esperienze di amministrazione condivisa stanno spingendo i protagonisti pubblici e di terzo settore a trovare forme di collaborazione ulteriori rispetto alla coprogettazione di specifici progetti di intervento.

                Ciò può sicuramente portare ad un rinnovato interesse per le forme di coprogrammazione – per quelle relative a temi specifici così come, presumibilmente, per la programmazione di zona – nell’ambito di un sistema di relazioni tra enti pubblici e terzo settore, coerente con l’art. 55 della riforma del terzo settore, più solido rispetto alla 328/2000. Anzi, vi è anche chi (Bongini, Di Rago, Semeraro, Zandrini 2021: non a caso un gruppo di autori in cui collaborano persone provenienti dalla pubblica amministrazione e dal terzo settore) prova a spingersi un passo più avanti, ponendo la questione della relazione tra enti pubblici e terzo settore in sede di redazione dei documenti fondamentali di programmazione (ad iniziare, per gli enti locali, dal DUP), laddove essi riguardino i settori di interesse generale.

                Insomma, tutto ciò porta a ritenere che il 2022 veda una diffusione di esperienze di coprogrammazione; come ogni evoluzione, questo scenario posta con sé alcuni nodi che, senza pretesa di completezza, si è provato ad accennare, dalla cui positiva soluzione dipende l’effettivo successo di tali processi.

                 

                Marco Betti
                Amministratore del forum

                  Programmazione sociale territoriale: ci sarà la stagione dei CO?

                  Ugo De Ambrogio

                  A seguito della pandemia tuttora in corso e della disponibilità di risorse che i processi di fronteggiamento della pandemia stanno mettendo a disposizione dei policy makers (PNNR e altro), nel nostro paese sta riprendendo una fiorente stagione di programmazione sociale.

                  In molte regioni si è ripresa la programmazione di zona che per alcuni anni era rimasta sopita (Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Lombardia e altre), inoltre sono stati redatti piani nazionali settoriali: il Piano sociale nazionale, legato al fondo nazionale per le politiche sociali, il Piano per gli interventi e i servizi di contrasto alla povertà legato al fondo povertà, il Piano per la non autosufficienza, legato al fondo per le non autosufficienze. I primi due sono stati elaborati per il triennio 2018-2020 il terzo per il triennio 2019-2021.

                  Tali strumenti settoriali sono stati recentemente accorpati e sintetizzati nel nuovo Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali 2021/2024, che attendevamo da quasi un ventennio e che si candida ad essere un’importante strumento di indirizzo per le regioni e i territori al fine di utilizzare al meglio le risorse oggi disponibili.

                  Il piano si propone come: “uno strumento di sintesi, che “intende rispondere al dettato legislativo costituendosi come documento dinamico e modulare, che contiene all’interno una cornice unitaria, i soprarichiamati piani settoriali (pag 2)”.

                  In questo contesto di rinnovata attenzione alla programmazione sociale va considerato anche l’importante atto nel ministero del lavoro e delle politiche sociali che negli scorsi mesi ha adottato le “linee guida sul rapporto tra pubbliche amministrazioni ed enti del terzo settore negli articoli 56 e 57 del decreto legislativo numero 117/2017 ovvero del codice del terzo settore”. Tali linee guida hanno il merito di regolare con chiarezza gli istituti della coprogrammazione e della coprogettazione che rappresentano le nuove forme e cornici anche di carattere amministrativo all’interno delle quali si sviluppano i rapporti a carattere collaborativo e di responsabilità, tra i diversi soggetti pubblici e privati che nella società civile contribuiscono alla costruzione del welfare sociale.

                  Si tratta, a parere di chi scrive, di iniziative meritevoli (ben venga una nuova stagione di programmazione sociale!) e opportunamente, in queste pagine, Gianfranco Marocchi si è recentemente chiesto se, in tale contesto: Sarà l’anno della coprogrammazione?

                  Chi scrive condivide gli auspici e le prospettive che Gianfranco Marocchi illustra nel suo articolo e intende fornire un contributo ulteriore, auspicando l’arrivo non di un anno ma di una stagione anche più ampia di coprogrammazione, fornendo alcuni suggerimenti relazionali e metodologici per “proteggere e preservare” la coprogrammazione da rischi che ne potrebbero svalutare le potenzialità.

                  Mi sembra però opportuno fare prima una premessa sull’evoluzione storica della partecipazione nella programmazione sociale in Italia utilizzando una tabella (Tabella 1).

                  Tabella 1

                  Nel corso di un quarto di secolo siamo infatti passati da una programmazione sociale verticistica, in logica di government, ad una idea di governance caratterizzata dal metodo della coprogrammazione.

                  Nel primo modello il pubblico titolare della costruzione delle politiche decide quali politiche sociali promuovere e lo fa attraverso strumenti prescrittivi (leggi, piani, direttive etc.). Un chiaro esempio dell’applicazione di questo modello è stata la l.  285 del 1997 – diritti ed opportunità per infanzia ed adolescenza – una normativa illuminata nei contenuti ma decisa dall’alto, come era caratteristica dell’epoca in cui è stata pensata: gli ultimi anni del secolo scorso.

                  La legge 328 del 2000 e le leggi regionali che negli anni successivi, a seguito della riforma costituzionale, ne hanno ripreso i principali contenuti, sono invece sintomatiche di un secondo modello che potremmo metaforicamente definire di “monarchia illuminata”: chi deve decidere, ovvero il livello politico di un comune o di comuni associati, consulta i soggetti del terzo settore che ritiene più autorevoli nel proprio territorio o altri della società civile (testimoni privilegiati) per raccogliere suggerimenti in ordine alle decisioni che deve prendere per lo sviluppo delle politiche sociali .  Emblematico di tale modello sono stati (e ancora in molti territori sono) i tavoli tematici dei piani di zona, condotti per lo più a livello tecnico e con una modalità consultiva.

                  Oggi, anche grazie alle procedure di tipo consensuale e non competitivo previste dall’art. 55 del Codice del Terzo Settore (secondo principi della L. 241/1990) siamo in presenza di un possibile nuovo paradigma collaborativo nei rapporti pubblico privato nella programmazione sociale e gli ETS possono sviluppare, nei rapporti tra loro e con la PA, relazioni improntate alla cooperazione e alla condivisione in coerenza con il principio di sussidiarietà. La programmazione sociale, in questo quadro, può procedere in logica di governance, il pubblico titolare della costruzione delle politiche lo può fare insieme al terzo settore, anch’esso titolato a identificare i bisogni di un territorio e le strategie per fronteggiarli. È questa quella che chiamiamo coprogrammazione.

                  Tabella 2

                  In un recente articolo (cfr. Prospettive Sociali e Sanitarie, n. 2 – Primavera 2021) auspicavamo l’avvio della cosiddetta stagione dei 6 CO (Coprogrammazione, Coprogrammazione, Collaborazione, Corresponsabilità, Condivisione Comunità), ad indicare che non basta avere una buona norma per divenire “magicamente” collaborativi, perché il cambiamento auspicato è complesso e prefigura un cambiamento culturale che richiede tempo e metodo.

                  La stagione dei CO comprende concetti chiave che sottostanno al passaggio da un paradigma di tipo essenzialmente competitivo, che ha caratterizzato i processi di esternalizzazione dei servizi tipici degli anni passati, verso un paradigma di tipo collaborativo.  Collaborazione, corresponsabilità cooperazione, condivisione, sono tutti elementi che richiedono a monte, fra le parti coinvolte, la costruzione di una solida relazione di fiducia.

                  In effetti, nella intensa attività formativa che come Scuola Irs per il Sociale stiamo conducendo in questi mesi sui temi della collaborazione, coprogrammazione e coprogettazione fra pubblico e terzo settore, sta emergendo una forte esigenza di riflettere su come sviluppare efficaci rapporti di fiducia, andando oltre pregiudizi e diffidenze reciproche.

                  Limitando, in questa sede, la questione alle esperienze di coprogrammazione, possiamo elencare alcuni rischi e preoccupazioni emersi in confronti svolti all’interno dei nostri corsi, che i soggetti della coprogrammazione si trovano a fronteggiare.

                  Assumendo il punto di vista del soggetto pubblico alcune delle preoccupazioni più ricorrenti emerse dai nostri corsisti sono:

                  • non seleziono più discrezionalmente ma devo accettare gli aventi titolo (chi risponde ai requisiti di un avviso);
                  • non posso pertanto più esercitare discrezionalità «politica»;
                  • devo essere «ecumenico»;
                  • appesantisco «burocraticamente» i processi partecipativi;
                  • rischio di entrare in conflitto con il terzo settore;
                  • rischio di entrare in conflitto fra il livello tecnico e quello politico.

                  Assumendo ora, specularmente, il punto di vista del terzo settore le preoccupazioni più ricorrenti emerse dai nostri corsi sono:

                  1. cedo gratis il mio know how;
                  2. perdo tempo non pagato senza alcuna garanzia di averne lavoro in futuro;
                  3. posso essere manipolato da interessi politici;
                  4. rischio di entrare in conflitto con il settore pubblico;
                  5. rischio di entrare in conflitto con altri soggetti del terzo settore del mio territorio.

                  Si tratta di preoccupazioni legittime, che vanno però superate per poter collaborare efficacemente, e come dicevo in precedenza, la fiducia può essere l’antidoto per superarle non evitando confronti e conflitti ma considerandoli feconde opportunità di programmazione efficace.

                  Ma che cosa significa precisamente avere fiducia nei rapporti collaborativi?

                  Il tema è ampio e in questa sede ci limitiamo ad alcune brevi riflessioni emerse dai nostri corsi e tutte da approfondire.

                  Una prima osservazione è che una relazione basata sulla fiducia è infatti un modello di relazioni possibile nelle relazioni di partenariato; come infatti ci ricorda Covey, la fiducia :

                  • favorisce una comunicazione circolare,
                  • consente ai partner non di costruire trincee ma ponti,
                  • non c’è nessun nemico da cui difendersi ma risorse da conoscere e ri-conoscere per arricchirsi.

                  Micaela Marzano, in un suo bel saggio di qualche anno fa ci ricorda anche che la fiducia è una sorta di dono senza garanzia di reciprocità, non dipende (solo) dalla competenze specifiche, avere fiducia consente di ricordarci che dipendiamo gli uni dagli altri (come forse la pandemia ci ha insegnato) e che pertanto autonomia non coincide con indipendenza ma con una idea consapevole che abbiamo bisogno degli altri così come gli altri hanno bisogno di noi.

                  Nei rapporti collaborativi, e nella coprogrammazione in particolare, coltivare la fiducia è pertanto una pratica essenziale, si tratta però non di attribuire una fiducia “cieca”, ma di coltivare quella che Covey chiama fiducia intelligente, ovvero quella modalità che permette di gestire i rischi con saggezza evitando disastrose ingenuità, ma anche di non rimanere prigionieri della diffidenza che alimenta sospetti paralizzanti.

                  La fiducia intelligente è prodotta da due distinte propensioni: la propensione relazionale alla fiducia e la capacità analitica di riconoscere meriti e competenze dei nostri interlocutori.

                  La prima viene dalle nostre intuizioni e dalle nostre caratteristiche personali (esperienze, educazione ecc.), la seconda viene dalla nostra razionalità ed è legata alla nostra capacità di leggere i dati di realtà ed elaborarli criticamente.
                  La capacità analitica in coprogrammazione è importante che sia utilizzata per valutare in primo luogo i bisogni e le opportunità che il territorio ci presenta, successivamente si prendono in considerazione i rischi connessi giudicando la rilevanza e la visibilità dei risultati e la loro probabilità di conseguimento, infine va considerata la credibilità dei nostri interlocutori inclusa la competenza e l’attitudine. Dopo questa analisi si può dare spazio alle nostre intuizioni e decidere di accordare fiducia intelligente, senza tenere sotto esame i nostri interlocutori ma passando a costruire una comune programmazione passando da una logica del tu ed io ad una logica del noiper, insieme, costruire politiche di welfare efficaci per il nostro territorio.

                   

                  QUESITO SULLA CO-PROGRAMMAZIONE
                  Nel caso gli obiettivi indicati da una SdS in un avviso di co-programmazione  coincidano genericamente con quelli generali del proprio PIS – nell’intento di non limitare gli ETS nella formulazione di proposte innovative e rispondenti ai bisogni del territorio – è consentito all’Ente pubblico avviare  tavoli di co-programmazione esclusivamente con i partecipanti selezionati in base a criteri indicati nell’Avviso stesso ?
                  Oppure al contrario l’esigenza di garantire la c.d. “fiducia” reciproca impone di dar seguito a tavoli di confronto con tutti i partecipanti ammessi ?
                  Si evidenzia che in quest’ultimo caso l’impegno per l’Ente potrebbe rivelarsi particolarmente oneroso.
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